Disegno analogico e rappresentazione digitale: transfert evocativo vs persuasivo? – di Gianluca Evels
La storia dell’architettura ha evidenziato come nella pratica del disegno sia stato sempre possibile leggere uno stretto rapporto tra avanguardie artistiche e architettura.
Oggi la rappresentazione dell’architettura sembra aver perso questa vitalità di legami espressivi al di fuori della disciplina. E se anche la pratica del disegno è ancora riconosciuta come importante, l’autoreferenzialità sembra essere la caratteristica principale della gran parte dei modi della rappresentazione architettonica attuale, digitale ed analogica, rischiando di divenire solo espressione calligrafica legata ad esigenze di riconoscibilità, di “firma”.
Si è già parlato in questa sede di come in un atto di genesi del progetto, il disegno iniziale, in particolare lo schizzo architettonico, secolare mezzo analogico, sia per molti architetti ancora oggi potente strumento evocativo e di rapida messa a fuoco degli obbiettivi o delle tematiche portanti che verranno sviluppate in quel processo estetico di intenzioni rappresentato dallo stesso iter progettuale. Lo schizzo iniziale rimane una forma di pensiero visivo con capacità di prescrizione sull’intero progetto futuro fino allo spazio costruito.
Il rapporto che un architetto contemporaneo attua rispetto agli strumenti espressivi a disposizione, digitali o analogici, per poter comunicare compiutamente l’idea di un progetto, è di tipo complesso ed è assoggettato a innumerevoli fattori che di volta in volta ne guidano la scelta in maniera differente.
La digitalità imperante imposta ormai dalle condizioni e dalle esigenze di resa in tempi sempre più accelerati richiesti dal sistema-mercato globale attuale che fa dell’Architettura un mestiere ultra specializzato, un mero settore del meccanismo capitalistico al pari di altri, porta spesso gli architetti ad affidare la rappresentazione a specialisti esterni, oppure a pianificare il tipo di rappresentazione in base all’efficienza e rapidità d’uso da parte dello staff di studio dei software a disposizione, specialmente nelle rappresentazioni tridimensionali.
Nulla di negativo di per sé ovviamente, ma c’è lo spazio per alcune considerazioni.
I sistemi di hardware e software diffusi in quasi tutti gli studi hanno raggiunto il ruolo di condensatori anticipatori del reale e sempre più spesso la genesi della forma è affidata sin dall’inizio alla sola modellazione digitale con il rischio di un appiattimento generale dell’espressività. Parlando di progetti complessi un altro rischio, non sempre valutato, è il fatto che il risultato della modellazione è molto spesso direttamente legato alla bravura e perizia dell’operatore di quella fase e non alla vera intenzionalità del progettista.
Per alcuni architetti la conservazione del disegno come pratica quotidiana diventa un salvacondotto per la sopravvivenza espressiva, un segno di libertà di espressione anticonvenzionale coltivato all’interno del proprio know-how professionale. Ma il solo atteggiamento di anticonformismo può naufragare contro le barriere dell’anacronismo.
Il raggiungimento di una espressività tecnica efficace di alto livello con render iperrealistici, a volte bellissimi, è legato anche ad un fattore economico: essi sono costosi poiché ormai affidati a specialisti esterni esperti, anche non necessariamente di formazione architettonica, e tale fattore ne limita l’accesso ad una grossa fetta di architetti, comunemente noti come professionisti dalle non grandi risorse. Parziale conseguenza è che si vira spesso verso una rappresentazione tecnicamente di qualità inferiore, a parte poche eccezioni, spesso con tecniche ibride di campionatura da collage, sicuramente più a buon mercato.
Sono affascinato dal lavoro di rappresentazione architettonica fatto da gruppi stellari come Luxigon o personaggi di pari livello come Alex Roman, in cui l’elemento ‘atmosferico’, avvolgente e sensuale, presente nelle immagini assieme ad una certa componente poetica ha finalmente soppiantato ormai quel senso di iperrealismo fotografico, imperante e apparentemente irrinunciabile fino a poco tempo fa.
Personalmente sono in una posizione un po’ ibrida in materia di scelta di tecniche di rappresentazione digitali o analogiche, sia per necessità che per scelta formale.
Amo il disegno analogico ed il suo potere di transfer evocativo, ricco di possibilità di partenza dovute anche al suo senso di “impreciso”, non esatto; un potere che tiene aperte diverse opzioni durante tutto il processo progettuale. Inoltre ho sempre pensato che il disegno possa ancora stimolare positivamente una capacità di lettura colta da parte dell’osservatore che deve essere basata su continue associazioni e rimandi, su di una selezione critica e ragionata di argomenti e immagini per poter leggere l’immagine analogica stessa: per capire un disegno di architettura è ancora necessario, anche inconsciamente, fare delle associazioni logiche di riferimento. Il disegno di architettura rimane ancora un atto culturale.
L’enorme numero di immagini digitali disponibili, in rete soprattutto, porta ad un overdose visiva, con conseguente impoverimento di questa capacità di lettura che ancora scatta automatica su di un disegno. Il lato rovescio della digitalità visiva in architettura è quella di confondersi con il mondo meramente grafico-illustrativo ed effimero caratteristico della comunicazione pubblicitaria, della moda: sopravvivono solo le “invenzioni” epocali, il resto soccombe e sparisce.
Di contro, dell’aspetto digitale della rappresentazione apprezzo il potere di consenso che a volte riesce a scatenare nell’osservatore: un tale potere, l’immagine analogica di un disegno non potrà mai raggiungerlo.
Rimango sempre stupito e in qualche modo affascinato quando questo potere persuasivo viene trasferito dalle masse a immagini renderizzate di progetti molto discussi pubblicamente. Penso per esempio allo stadio della Roma, alla nuvola di Fuksas: nonostante la mole di disegni prodotti dal progettista, solo il rendering diventa un espediente di marketing capace di veicolare anche messaggi politici; in questa maniera esso diventa strumento potentissimo dal fascino indiscusso, con la capacità di attuare in un certo senso un transfer persuasivo collettivo.
Elemento fondamentale per me nella rappresentazione del progetto architettonico è la comprensione del fattore di scala: che sia digitale o analogico l’immagine riporta quasi sempre una o più figure umane, spesso in prossimità del fuoco prospettico, probabilmente per esigenza di appropriazione e di resa confidenziale dello spazio architettonico rappresentato.
Mi interessa meno il disegno di architettura e di rappresentazione digitale come categoria specifica ed autonoma: gli architetti disegnano per mestiere e in generale i loro disegni e rappresentazioni dovrebbero esser tesi, alla fine, ad una prefigurazione di uno spazio tangibile, fisico. Il disegno come prodotto finito e non come strumento, al pari di un render iperrealistico entra nelle logiche di produzione e mercato tipiche della parte materialistica della società contemporanea, o nei casi più eccelsi in quelle logiche di mercato d’arte legate alle dinamiche del collezionismo autoriale.
Penso ancora fermamente che il disegno sia ancora, in questa acceleratissima era digitale, utilissimo nella genesi o nei passaggi chiave nella storia evolutiva di un progetto: il disegno analogico, soprattutto nella forma di schizzo, con le sue approssimazioni, sovrapposizioni e rifacimenti mette in diretta relazione il progetto con la sua concretezza futura, in maniera diretta ed immediata.
Come già ricordato il disegno è pensiero visualizzato, e come tutte le discipline che hanno a che fare con la trascrizione di un pensiero, la musica, la letteratura, la matematica, ha bisogno di essere coltivato con la costruzione di un corpus espressivo di regole, di una grammatica e sintassi propria o presa altrove, per poter poi liberamente esprimere il pensiero stesso.
Gianluca Evels
[ © Gianluca Evels – Vietato riprodurre, anche parzialmente, il materiale pubblicato su Industriarchitettura ]
IMMAGINI – CREDITS:
– Cheong-na New City Tower, “Up-side down Vertigo”, Incheon, Corea 2008
(credits project team: G. Evels, L. Giavarini, L. Valente, consulente C. Sommese)
– Hong Kong Alternative Car Park Tower, “KubeKong Skyscraper Car Park”, Hong Kong 2011
(credits project team: G. Evels, S. Papitto, S. Maccarrone, A. Tonnetti)
– Kotka, a marina quarter in the centre, “Touching water”, Kotka, Finlandia 2007
(credits project team: G. Evels, S. Papitto, L. Valente, L. Giavarini, M. Rossetti)
– Moskow A101 urban block, “be in sunshine”, Mosca, Russia 2010
(credits project team: G. Evels, S. Papitto, S. Maccarrone)
– Skien-Porsgrunn – a strategy for a new sustainable mobility in the twin city urban field, “Landscaping Connection”, Skien-Porsgrunn Conubartion, Norvegia 2011
(credits project team: G. Evels, S. Papitto, S. Maccarrone, L. Mura)
– Warming huts: an Art & Architecture competition on ice, “Nesting thought”, Winnipeg, Canada 2010
(credits project team: G. Evels, S. Papitto)
Gianluca Evels
Architetto, vive e lavora a Roma. Nel 2003 fonda con Stefania Papitto il gruppo b4architects che dal 2012 diventa Evels-Papitto b4architects associated. Il gruppo vince diversi concorsi nazionali ed internazionali e i progetti vengono esposti in diverse città in Europa, in Nord e Sud America. Nel 2008 partecipa alla 11a biennale di Venezia con studio Nemesi. Nel 2009 nella 12th World Triennal of Architecture in Sofia – Interarch ’09 riceve lo Special Prize from the Chamber of Architects in Bulgaria. Sempre nel 2009 è vincitore di 27/37 Giovani architetti romani e italiani poi esposti al Padiglione dell’Expo di Shanghai 2010. Nel 2011 sono tra i vincitori del Europe 40 under 40, Europe's emerging young architects and designers. www.b4architects.com